Terrazze d’altri tempi
“E, alla fine, arrivano sempre i ricordi, con le loro nostalgie e la loro speranza, e un sorriso di magia alla finestra del mondo, quello che vorremmo, bussano alle porte di quello che siamo.“
Fernando Pessoa , da “Il libro dell’inquietudine”
È da qualche mese che penso a quest’articolo. Ho aspettato, però, sino a che la stagione primaverile cominciasse ad emanare il suo tepore, ad espandere i profumi dei fiori e dell’erba nuova nell’aria. L’atmosfera è, difatti, necessaria a mettere fuori l’anima e a schiarire i ricordi.
Partirò dalla parola molese “aschete”, cioè “lastrico, terrazzo, ripiano scoperto sopra le abitazioni e relativo pavimento”, (dal greco astracon, “coccio, conchiglia”, con cui si facevano appunto i terrazzi).
Chi, come me, viene dal sole del Sud, sa quanta importanza abbiano avuto nel recente passato questi spazi.
Erano luoghi di aggregazione, di incontro tra vicini, di amici, di feste di matrimonio o di compleanno.
La calce, che rendeva “u aschete” candido e “puro”, era abbellita da piante fiorite, da grappoli d’uva appesi a tralci rampicanti. I muretti divisori permettevano ai bambini di giocare con i figli dei vicini e di sperimentare il brivido del pericolo, dato che i muri erano molto bassi.
Tra i panni stesi si faceva la vita e la sera le luci e la musica rallegravano il quartiere. Un mondo ormai lontano, che appartiene al passato, ma che, tuttavia, torna frequentemente alla mente, insieme alle persone che lo hanno animato.
Prof.ssa Arianna Gallo